RELAZIONE DEL PRESIDENTE NAZIONALE ANPI, GIANFRANCO
PAGLIARULO AL COMITATO NAZIONALE ANPI – 20/11/2020
Una premessa
Oggi abbiamo a tema la situazione politica ed economico sociale di cui abbiamo a
lungo parlato nella riunione dei vicepresidenti. Scusatemi, ma non sarò breve. È una
discussione davvero importante che dovrà portarci a delle scelte importanti, come si
vedrà alla fine della mia relazione. Pur non essendo un dibattito propriamente
precongressuale, la discussione di oggi ci potrà servire anche per istruire alcune
tematiche che ci porteranno al congresso.
Inizio dalla fine: ci troviamo in una situazione mai avvenuta in passato, straordinaria e
per molti aspetti gravissima. Dobbiamo attrezzarci per affrontarla e perciò dobbiamo
avviare una vera e propria nuova fase della lotta antifascista e democratica. Possiamo
e dobbiamo farlo noi, perché ci è riconosciuto da tanta parte del mondo democratico il
possesso di quelli che Albertina Soliani chiama giustamente i fondamentali, e cioè
quell’insieme di radici, di principi, di valori, che affondano nella Resistenza, nella
repubblica e nella Costituzione.
Nella sua oramai lunga vita, infatti, l’Anpi ha di fatto rappresentato il tentativo, finora
sostanzialmente riuscito, di rendere permanente e attuale il sistema di valori generali
che attribuiamo all’insieme degli eventi che abbiamo definito Resistenza, e ai suoi
protagonisti: in primo luogo i partigiani e le staffette, i militari e poi i civili che a vari
livelli e con varie modalità operarono la scelta.
Tale sistema di valori riconducibili ai principi della giustizia sociale, della libertà, della
democrazia, della solidarietà, della pace, è stato sempre interpretato non in astratto,
ma in stretta connessione con le sue incarnazioni istituzionali, in particolare con la
Repubblica e la Costituzione, e con gli eventi politico-sociali che hanno scandito gli
ultimi 70 anni.
Di questi valori l’Anpi dà una lettura storicamente universale. Si intende cioè che
hanno uno straordinario carattere espansivo, ma che vanno collocati relativamente al
luogo e al tempo in cui si coniugano. Quella che oggi chiamiamo democrazia, per
esempio, ha avuto finora una vita storica limitata ed una altrettanto limitata presenza
geografica. L’universalità di tali valori è cioè tendenziale e la loro piena realizzazione
tende ad essere un orizzonte verso cui muoversi sempre, piuttosto che una realtà
compiuta una volta per tutte. Si tratta, appunto, di ideali.
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La figura del partigiano/partigiana incarna simbolicamente la lotta per questi ideali,
nella fattispecie storica nelle vicende terribili e sanguinose dei venti mesi della
Resistenza.
L’attuale crisi mondiale causata dalla pandemia, la seconda grande crisi del secolo,
pone all’ordine del giorno di gran parte dell’occidente in modo contestuale tra grandi
questioni: la questione sanitaria, la questione sociale, la questione democratica.
Queste tre questioni sono, in particolare per l’Italia oggi, la sfida a cui occorre
rispondere e su cui ricollocare l’originario sistema dei valori dell’Anpi. Non basta:
occorre immaginare l’Italia, l’Europa, il mondo dopo la fine della pandemia, e questo
apre nuovi pesanti interrogativi.
Il mondo
L’elezione del presidente Biden può segnare uno spartiacque nelle dinamiche del
fenomeno che abbiamo definito populista, ma che si è manifestato, nel tempo, più
articolato, contenendo aspetti più o meno incisivi di nazionalismo, machismo,
razzismo, neofascismo, neonazismo con una forte connotazione antipolitica; ma non è
affatto dato che si avvii il declino del fenomeno populista, pur avendo perso il suo
principale referente mondiale vincente nella persona del presidente Trump. Rimane
molto forte la presenza repubblicana al Senato, ed in ogni caso, pur con la vittoria di
Biden, l’America appare profondamente divisa. È giusto perciò un giudizio positivo
sull’esito delle elezioni, ma è fuori luogo un eccesso di ottimismo. Molto dipenderà,
com’è ovvio, dalle politiche del nuovo presidente e dalle politiche dei Paesi dell’UE,
se cioè tali politiche rimuoveranno parzialmente o totalmente le cause che hanno
determinato il consenso alle parole d’ordine populiste, oppure se, non mutando o non
mutando a sufficienza lo stato di cose presente, il populismo ritroverà il passo e il
consenso del recente passato.
La presumibile uscita degli States dall’isolazionismo protezionistico di Trump, cosa in
sé positiva, apre obiettivamente degli interrogativi sulla politica estera del nuovo
presidente. Se cioè prevarrà la cultura della pace e della negoziazione, oppure se
torneremo all’interventismo armato, o comunque a forme nuove di guerra fredda. Sono
troppi i punti di potenziale crisi per non nutrire questa preoccupazione, dal Medio
Oriente all’America Latina, ai rapporti con la Cina e con la Russia. Per questo, in una
breve dichiarazione relativa all’elezione di Biden, ho affermato che “auspichiamo una
nuova politica dichiaratamente antirazzista e antifascista. Prevalgano finalmente la
cooperazione internazionale, la coesistenza pacifica, l’abbattimento di ogni muro”. È
in sostanza il tema della pace nel mondo.
Aggiungo, a questo proposito, un punto che ci sta particolarmente a cuore perché fa
parte del Dna dell’Anpi: il rispetto dei diritti umani in quanto storicamente universali.
Sovente in questi decenni in occidente si è sottolineato il tema dei diritti umani in alcuni
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casi anche con carattere pretestuoso e a fini bellici: penso all’Iraq, alla Libia, alla Siria.
Ma assieme si sono ignorate altre realtà: dalle petromonarchie, a cominciare
dall’Arabia Saudita, al conflitto israelo-palestinese, alla situazione in Ucraina, al Cile
precedente alla svolta recente in cui si è approvata a furor di popolo una nuova
Costituzione democratica. Penso ancora, per esempio, ai bambini che lavorano per le
multinazionali o ai comportamenti dei contractors. In realtà il tema dei diritti umani è
una grande questione mondiale, trasversale ai sistemi politici ed economico sociali, con
diversi aspetti e livelli di gravità.
Tornando alle elezioni: esse confermano che, nonostante la sconfitta, Trump, pur
avendo perso una parte non irrilevante di classe operaia, gode ancora di un altissimo
consenso popolare nella middle class bianca, fra gli ispanoamericani, fra i ceti meno
acculturati e più in generale nella grande provincia.
Con le debite proporzioni, analogo fenomeno è presente in Europa dove il malessere
popolare si è orientato in grande parte verso i cosiddetti populisti, quanto più la crisi
mordeva le condizioni socioeconomiche. In assoluto il fenomeno non è nuovo: basti
pensare alla crescita del consenso verso i fascismi nel primo dopoguerra in tanti Paesi
europei, in primis in Italia e successivamente in Germania. Come già detto nel
Comitato nazionale dell’11 settembre, la destra nel mondo è prevalentemente
schiacciata oggi su posizioni sovraniste radicalizzando i conservatori, in una sorta di
rivoluzione conservatrice.
Il sostegno finanziario dell’UE verso i Paesi colpiti dal Covid è senz’altro il segno di
un’inversione di tendenza, seppure messa in discussione proprio dai Paesi – Ungheria
e Polonia, e anche Slovenia – più vicini alle destre nazionalpopuliste italiane, ed anche
dai Paesi cosiddetti frugali. Ma tale sostegno finanziario, pur necessario, non è
sufficiente per rappresentare una decisa correzione di rotta nella navigazione europea.
L’UE rimane un gigante (con qualche ammaccatura) economico, ma è ancora un nano
politico. Emerge in sostanza una relativa ininfluenza dell’Unione su scala mondiale ed
una massa poco produttiva di rapporti conflittuali e di inerzie. Non si sono ancora
sciolti i nodi di una politica europea verso le emigrazioni, mentre sempre più il
Mediterraneo diventa la grande fossa comune del nuovo secolo. In prospettiva è da
vedere se le migliorate relazioni con gli Stati Uniti porteranno alla ricostruzione di leali
relazioni di amicizia nel rispetto delle alleanze, salvaguardando l’autonomia dell’Ue,
oppure si tornerà a forme antistoriche di subalternità e, in particolare sul piano
economico, a nuove guerre commerciali dell’occidente contro l’oriente. Oggi si
confrontano tre grandi potenze economiche e commerciali: Stati Uniti, Cina, Unione
Europea. Nel rispetto delle alleanze politiche e militari, la salvaguardia degli interessi
economici dell’Unione è nella sua autonomia ed in una visione multilaterale e
cooperativa dei rapporti internazionali, come fra l’altro recentemente auspicato da
Macron.
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Questa complicata situazione di difficoltà e di possibilità è ulteriormente avvelenata
dal periodico presentarsi di forme estreme di terrorismo, che alimentano l’islamofobia
e possono fomentare il rischio di una guerra di religione. Qui va solo rimarcato, contro
ogni eurocentrismo, che il terrorismo di radici Isis non è presente solo in Europa, ma
anche in Asia e specialmente in Africa con stragi inenarrabili.
Oggi, in una diversa circostanza storica e geopolitica rispetto al primo dopoguerra, i
populismi-nazionalismi trovano concime per il loro sviluppo nelle situazioni di crisi
mettendo non solo i poveri contro i più poveri, ma anche i garantiti contro i non
garantiti, con l’alibi non sempre ingiustificato di una crociata dei “popoli” contro le
élites.
In questo scenario domina la crisi della democrazia nelle sue cattedrali – per dirla con
Ferdinando Pappalardo – cioè nei Paesi con più lunga storia e tradizione democratica.
Ma va sottolineato che tale crisi non è frutto dell’ondata populista bensì viceversa. La
crisi della democrazia infatti è frutto del mancato governo della globalizzazione e del
prevalere dell’economia sulla politica. Questa inversione di ruoli è alla base
dell’inversione di valori che hanno ispirato il senso comune, la cultura e la vita
quotidiana degli ultimi trent’anni, con conseguenze nefaste sul piano della coesione
sociale.
Su questo punto, una conclusiva: colpisce, nel dibattito pubblico e specificamente
politico, la scomparsa del capitolo analisi della situazione internazionale.
L’Italia
Questo insieme di fattori ha determinato in Italia una contraddizione lacerante nelle
forze democratiche che per storia e principi si riferivano ai ceti popolari.
Il percorso di conquiste sociali avviatosi con la repubblica e la Costituzione e reso
evidente nei decenni successivi – in particolare negli anni 70 con le leggi sul divorzio,
dell’aborto, lo statuto dei lavoratori, l’abolizione delle gabbie salariali,
l’industrializzazione del sud, il nuovo diritto di famiglia, il servizio sanitario nazionale
– si è rapidamente e traumaticamente invertito nei decenni successivi, durante i quali
gran parte di queste conquiste è stata erosa o svuotata. Basti pensare agli attacchi al
servizio sanitario nazionale o alle tutele del lavoro. Il dominio dell’economia sulla
politica ha portato a scelte presentate sempre come inevitabili a causa, appunto, della
globalizzazione, e alla demonizzazione di qualsiasi alternativa economico sociale. È
prevalsa una visione angelicata del privato e una sorta di damnatio memoriae dello
Stato, concesso solo come Stato minimo o come supporto finanziario all’impresa e
progressivamente evaporato come welfare, servizi, pubblico. L’impalcatura
costituzionale incardinata sul fondamento del lavoro è stata incrinata e spesso più o
meno velatamente messa sotto accusa.
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In questo scenario, a fronte di un progressivo defilarsi delle forze democratiche e di
sinistra e davanti agli effetti della crisi avviatasi nel 2007-2008, è cresciuta una sorda
protesta popolare, progressivamente incanalatasi verso l’astensione e poi verso un
consenso alle forze populiste e poi ancora verso le forze populiste-nazionaliste. Si è
determinato un corto circuito nella rappresentanza degli interessi sociali con leggi
elettorali che di fatto la riducevano o non la consentivano, nel momento di maggior
bisogno di tale rappresentanza. Il principio stesso della rappresentanza è stato messo
progressivamente in sott’ordine perché visto in qualche modo come alternativo all’idea
di governabilità, creando così sfiducia e crescente rancore sociale, sedimentatosi nel
consenso alle forze nazionalpopuliste.
Se questo è vero, occorre chiedersi su quale moderno blocco sociale si reggano tali
forze e occorre conoscere meglio la composizione del consenso sociale alla destra
attuale in Italia e le ragioni di tale consenso.
Ad una prima lettura, si tratta di un coacervo di ceti e di professioni con una particolare
propensione per i ceti medi declassati. A ciò si aggiungono lavoratori dipendenti a
tempo determinato e indeterminato, ceti marginali di varia natura (sottoproletariato
moderno), ceti abbienti spesso parassitari. La destra sovranista, in sostanza, è riuscita
a creare quella “connessione sentimentale” con parti rilevanti del popolo su cui hanno
fallito le forze democratiche e di sinistra. Peggio: in molti casi la destra ha di fatto
ereditato il consenso sociale smarrito dalle forze di sinistra. L’accezione di popolo
nella lettura sovranista è quella di un gruppo sociale coeso e privo di contraddizioni,
che guarda all’altro come un nemico esterno o interno, e che si rivolge all’uomo forte
senza mediazioni istituzionali e sociali. In questa accezione, il consenso alla destra
sovranista da parte del suo elettorato è consistente, e le stesse ultime dinamiche
elettorali non rivelano un travaso dalla destra alle forze democratiche, ma tutt’al più
degli spostamenti interni allo stesso campo, con Fratelli d’Italia che cannibalizza
progressivamente parte dell’elettorato leghista. Va notato in ogni caso che le destre
sovraniste propongono obiettivamente una visione del mondo articolata e dal loro
punto di vista conseguente, mentre la più grande forza democratica – il Pd – non
propone una coerente narrazione, o meglio propone narrazioni diverse e
contraddittorie. Altra è la riflessione per Forza Italia, che tende a distinguersi dal
mondo sovranista, si propone al governo in modo più collaborativo, si presenta come
una forza liberale.
Il consenso alle forze democratiche è consistente nei ceti medi una volta definiti
“riflessivi” e si estende comunque ai ceti colti o popolari, ma politicizzati. La stessa
definizione di “forze democratiche” si riduce il realtà al Pd con qualche marginale
formazione centrista, con una piccola formazione di sinistra (Liberi e Eguali) e un certo
numero di partitini di estrema sinistra non rappresentati in parlamento e di fatto
inconsistenti. Va però detto che il Pd, come le altre forze di sinistra, mantiene una
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chiara connotazione antifascista. Non sta all’Anpi entrare a gamba tesa nel dibattito
politico e tanto meno sostituirsi al ruolo di un partito. Ma è indubitabile che manca non
all’Anpi ma all’Italia una formazione deputata alla prevalente rappresentanza politica
del mondo del lavoro. Sta di fatto che la metafora della situazione è il voto nelle
periferie romane, dove prevale la destra, mentre ai Parioli prevalgono le forze
democratiche. Un paradosso che ci interroga profondamente e richiede un
ripensamento generale alla luce della questione della rappresentanza.
Più in generale le forze che chiamavamo dell’antipolitica si sono ridislocate,
dimezzando i 5stelle che sono sempre più partito e sempre meno movimento com’era
inevitabile governando il Paese, e irrobustendo i due partiti nazionalpopulisti. A loro
volta l’antipolitica, che storicamente è sempre stato il prodromo di torsioni autoritarie,
si è rivelata, com’era ovvio, semplicemente una forma costitutiva della politica di
estrema destra. Ma il veleno è stato diffuso come sfiducia o rancore in quanto tale
verso “la politica”, le poltrone, le élites e via dicendo. Paghiamo e pagheremo a lungo
il prezzo di questo discredito che ha basi storiche e materiali e che riguarda anche il
cambiamento di natura dei partiti: ciò che oggi viene percepito è che i partiti
promuovono nelle istituzioni figure scelte non per competenza ma per appartenenza.
Dunque risalire la china del discredito comporta anche, se non in primo luogo, una
profonda riflessione sulla natura dei partiti attuali.
È interessante il posizionamento dell’industria media e grande: a giudicare dalle
posizioni del presidente di Confindustria, ciò che si chiede è prevalentemente
l’appoggio del governo al rifinanziamento del sistema industriale e il contrasto con le
organizzazioni sindacali; una mano libera totale che però non rivela una specifica e
organizzata simpatia verso le forze sovraniste per un motivo ovvio: non esiste oggi in
Italia un credibile partito puramente liberista e sufficientemente rappresentativo (è
evidente il rapido declino di Forza Italia). Esistono invece correnti sia nel Pd che nelle
forze di destra che esprimono siffatto punto di vista. La questione essenziale è il ruolo
dello Stato, visto da parte imprenditoriale quasi esclusivamente come una fonte di
sovvenzione del privato.
Non si può in sostanza negare che oggi una parte rilevantissima del complesso mondo
del lavoro non è orientata verso le forze democratiche, non si sente da essa
rappresentata. A sua volta il mondo del lavoro presenta un’articolazione del tutto
nuova, con lavoratori dipendenti a tempo indeterminato e determinato, a loro volta con
infinite differenze e sfumature, con caratteristiche contrattuali quasi sempre al ribasso,
e con lavoratori autonomi anch’essi di varia natura, con una forte presenza di partite
Iva e con una fortissima articolazione. E’ presente ma sempre più raro l’operaio della
grande fabbrica, mentre sono diffuse figure contrattuali e professionali eterogenee. Le
peggiori condizioni salariali e di lavoro sono mediamente sostenute da lavoratori
emigrati, con punte di illegalità di particolare efferatezza, che rasentano lo schiavismo
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e che sono spesso connesse ad organizzazioni criminali. Particolarmente disagiata è la
condizione del lavoro giovanile, dove al titolo scolastico non corrisponde più un
analogo livello professionale, ma un lavoro mediamente dequalificato. È quasi del tutto
scomparso il posto fisso, esso è sostituito spesso da lavori a termine, qualche volta
pericolosi, mal retribuiti, non gratificanti. Si smarrisce così la consapevolezza del
proprio lavoro e la sua dignità. Per molti ragazzi (ma oramai anche per tanti giovani
adulti) non c’è più la certezza di una pensione sufficiente, come è invece per i loro
padri (e neanche tutti), e la stessa vita sociale delle giovani generazioni, così deprivate
di speranze e di culture, si riduce al “muretto”, al bar, alle connessioni sui social, nella
scomparsa dei tradizionali centri di aggregazione come case del popolo, centri sociali
e luoghi del tempo libero, sezioni di partito comprese. Abitudini, valori, linguaggio,
stili di vita delle giovani generazioni differiscono in modo radicale da quelli delle
precedenti generazioni. Il punto di svolta e di rottura temporale è il web e l’uso dei
social.
In Italia persiste una struttura economico-corporativa della società, con una borghesia
imprenditoriale in alcuni casi di alto livello, ma in altri casi per così dire stracciona:
penso allo scandalo di questi giorni relativo al gruppo dirigente di Atlantia, cioè
Benetton, all’arresto del fondatore di Facile.it, al sequestro di tutti i beni dell’impresa
StraBerry di Milano di qualche mese fa. È’ da notare che su fronti diversi queste
imprese erano all’avanguardia dell’innovazione. Penso inoltre alla presenza della
mafia in tante imprese del sud e del nord.
Penso infine all’evasione e all’elusione fiscale da parte in particolare di grandi imprese
e di multinazionali, al loro giocare senza regole e a tutto campo, al loro potere
sterminato e incontrollato, tema che rinvia immediatamente, come accennato all’inizio,
al mancato governo della globalizzazione.
Tutto ciò – sia chiaro – non comporta affatto una condanna del mondo
dell’imprenditoria come tale, ma pone all’ordine del giorno una nuova e pesantissima
questione morale, giuridica e politica. A ciò si aggiungono fratture sociali che tendono
ad allargarsi come quella fra lavoro dipendente e autonomo, fra pubblico e privato, fra
nord e sud, fra giovani e anziani, e più in generale fra garantiti e non garantiti. In parole
povere un nuovo esercito è cresciuto in questi anni e crescerà ancor di più col
dopocovid: l’esercito degli invisibili. Infine comunque vada a finire l’Italia si troverà
con un enorme debito pubblico e con la necessità di ripianarlo. Questo scenario di gravi
difficoltà potrebbe aprire nuove e ulteriori praterie per i nazionalpopulisti.
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La pandemia
La situazione politica attuale nel Paese differisce da quella dell’estate ed anche da
quella del lockdown. I provvedimenti degli ultimi Dpdc sono stati vissuti non come
un’articolazione dei divieti proporzionata ai diversi livelli di pandemia nelle diverse
regioni, ma come un insieme di decisioni confuso e in parte contraddittorio. Sono vere
entrambe le letture: da una parte il tentativo di limitare i danni causati dai
provvedimenti restrittivi, in qualche modo concordandoli con le regioni; dall’altra i
ritardi legati a un mancato e compiuto lavoro preventivo pur nella consapevolezza
dell’estrema probabilità della cosiddetta seconda ondata. Ma rimane il comportamento
davvero censurabile di molti presidenti regionali in merito all’assunzione di
responsabilità, che rinvia alla più generale questione del Titolo V.
È cambiata profondamente la percezione popolare della pandemia rispetto ai tempi del
lockdown allora, in una parola, razionale, oggi con fortissime punte di irrazionalità.
In questo scenario si collocano i violenti attacchi dei due partiti nazionalpopulisti,
l’atteggiamento più collaborativo di Berlusconi, le ripetute tensioni con Italia Viva.
L’appello all’unità ripetutamente ed energicamente lanciato dal Presidente della
repubblica sembra rinviare a una prevalente responsabilità prevalente dell’opposizione
sovranista, demagogica e contraddittoria, ma anche – va detto – a uno sforzo unitario
forse troppo limitato da parte del presidente del consiglio. Peraltro stanno scoppiando
le contraddizioni nella destra fra Berlusconi e Salvini e la Meloni.
Ma ciò su cui è opportuno soffermare l’attenzione è il grave malessere sociale che si è
manifestato in tanti modi e che richiede un’ampia copertura finanziaria del governo.
Per la verità tale copertura sembra in essere. Si vedrà se è sufficiente. In ogni caso il
malessere rivela una inedita qualità della questione sociale, illuminando un’Italia dei
mille mestieri di un ceto medio basso, popolare, spesso disperso, che si arrangia con
professionalità più o meno riconosciute e che corre il rischio di essere decimato dagli
effetti delle limitazioni. Sembra che sia questo il ceto più colpito, e a cui si rivolgono i
neofascisti, che utilizzano la crisi per dar vita ai noti comportamenti eversivi.
Colpisce che un recente sondaggio per cui il 36% degli italiani critica i provvedimenti
perché troppo blandi, mentre solo il 26% li critica per l’opposta ragione.
Oggi siamo di nuovo in una gravissima emergenza sanitaria, scandita dal conto
quotidiano dei contagi e dei decessi e dove alla crisi economica – si badi bene – si
somma una drammatica caduta di socialità, che determina un crescendo di solitudini e
di individualismi che incidono sulla coesione sociale.
In questi anni, e in forme precipue in questo terribile 2020, abbiamo assistito al
procedere carsico di una subcultura influenzata da modelli di tipo fascistico, razzistico,
nazionalistico, cioè da modelli di consapevole contrasto alle conquiste
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dell’illuminismo e di revisionismo storico a partire dalla Rivoluzione francese (per poi
giungere, ovviamente, alla Resistenza). Nel 2020 in questa subcultura si è innestato, a
proposito del covid, il “pensiero magico”, negazionista, riduzionista, complottista,
antivax, e così via. Non è un caso che nei Paesi con al governo la destra sovranista si
siano adottate poche cautele contro la pandemia con risultati catastrofici. Ma ciò che
ora si vuole mettere a fuoco è che l’insieme di queste subculture, profondamente
penetrate nel senso comune e innervate di irrazionalismo, ha determinato una
escalation di violenze immotivate, o per futili motivi, o per motivi razziali, o per motivi
di gerarchia di genere. In particolare va sottolineato il tema della violenza contro le
donne anche perché, a differenza delle altre forme di violenza, non si scaglia contro
una minoranza ma contro l’altro genere e si configura perciò come puro esercizio di
potere e di coercizione gerarchica. Tali violenze si manifestano in forme diverse, da
quella psicologica e fisica a quella sessuale, dallo stalking allo stupro, al femminicidio.
In generale la frequenza delle violenze era ovviamente precedente alla pandemia, ma
nell’ultimo anno hanno assunto un carattere paradigmatico. Prendo due esempi: a
livello nazionale l’assassinio di Willy Monteiro Duarte, a livello internazionale quello
di George Floyd. C’è appena da accennare allo stretto rapporto fra fascismo e violenza:
certo, non tutte le violenze sono riconducibili al fascismo, ma tutti i fascismi sono
riconducibili alla violenza. Se aggiungiamo l’involgarimento e spesso
l’imbarbarimento del dibattito pubblico, concludiamo che siamo in sostanza davanti a
una allarmante regressione di civiltà e di costumi.
Considerazioni conclusive
È il momento di trarre alcune considerazioni da questa situazione così complessa,
contraddittoria e grave. Vige una generale incertezza, perché non è dato sapere né
quando né come terminerà il dramma della pandemia, e tale incertezza di per sé
condiziona il futuro per il mondo e per l’Italia. L’unica cosa certa – è stato scritto – è
che con la pandemia i ricchi diventano più ricchi e i poveri più poveri.
L’anello debole principale della tenuta sociale è oggi dato sia da una middle class
declassata e puntiforme, sia dall’esercito degli invisibili verso cui precipita parte della
classe media, verso cui va la prestata la massima attenzione per le reali e gravissime
difficoltà in cui versano, e anche per evitare l’esplosione di gravi tensioni sociali di cui
ad oggi abbiamo avuto solo qualche segnale. Le azioni eversive dei fascisti sono la spia
di un allarme democratico già evidente per le sconnessioni sociali, e mettono all’ordine
del giorno una vera politica antifascista e antirazzista da parte del governo. Tale politica
non è evidente e pare alle volte del tutto opaca nelle azioni e nelle dichiarazioni della
ministra dell’Interno.
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Il pessimo rapporto con le Regioni, lo scaricabarile di diversi loro presidenti, il loro
ruolo oramai del tutto personalizzato e spesso al di fuori dei loro stessi partiti, pone a
tema urgente, in un più ampio ragionamento sullo Stato, una riflessione sul Titolo V
della Costituzione. Occorre salvaguardare maggiormente il fondamento dell’unità
nazionale e garantire davvero l’eguaglianza dei diritti, dei servizi e delle tutele dei
cittadini su tutto il territorio nazionale. A maggior ragione è inattuabile e inaccettabile
qualsiasi programma di autonomia differenziata. La sostanza è che il buon dottor Jekill
del presunto decentramento federalista si è concretamente trasformato nel malvagio
mister Hide di una forza centrifuga rispetto al fondamento dell’unità nazionale.
In questi ultimi anni abbiamo assistito ad un ulteriore abbassamento della guardia nei
confronti dei fenomeni di revisionismo storico, con una tendenziale equiparazione
delle due parti in conflitto durante la Resistenza. Ma l’ultimissima generazione di
storici sembra contrastare questa deriva con una rinnovata vis polemica. E’ opportuno
che l’Anpi aggiunga alla relazione con storici della precedente generazione il rapporto
con quest’ultima generazione che ha introdotto un interessante plus di impegno civile.
Occorre insomma attrezzarsi per tempo a una battaglia che è sempre stata politica e che
oggi ha i suoi bastioni a destra con le foibe, le speculazioni su Norma Cossetto, la
risoluzione del parlamento europeo, e che riporti al centro del dibattito le gravissime
responsabilità del fascismo: nel 39 l’Italia invadeva l’Albania, fa l’Italia entrava in
guerra attaccando la Francia e poi la Grecia e poi, nel 1941, la Jugoslavia.
Da sempre l’Anpi ha operato nella direzione del contrasto ai neofascismi. Usciamo in
particolare da stagioni di grande lavoro su questo terreno. Consapevoli che oggi questo
impegno, pur necessario, non è più sufficiente, dobbiamo rapidamente aggiornare il
nostro programma a questo proposito, cosa che faremo come segreteria e forse anche
come presidenza nelle prossime settimane.
Il lavoro è propriamente campo dell’attività sindacale. Qui accenno soltanto al fatto
che il covid ha costretto a cambiamenti radicali nell’organizzazione del lavoro, penso
per esempio allo Smart working. Più in generale va affrontato il tema dell’integrazione
degli stranieri nel mondo del lavoro. Si tratta di una questione essenziale sia per la
diminuzione di manodopera italiana causata dal crollo demografico, sia per l’equilibrio
finanziario degli istituti di previdenza, sia per la diffusione del lavoro nero e del lavoro
schiavile a cui sono costretti migliaia e – credo – decine di migliaia di lavoratori
stranieri. Tutto ciò non ci può impegnare in prima persona, ma ci chiama all’appoggio
del movimento sindacale col quale dobbiamo cementare i già ottimi rapporti.
Il rapporto con le giovani generazioni è una priorità in generale e una priorità specifica
per l’Anpi, perché esse sono il punto di intersezione più evidente col malessere delle
periferie, perché l’Italia, come già detto, è uno dei Paesi col più alto tasso di crisi
demografica, perché inevitabilmente una parte sempre maggiore delle nuove
generazioni sarà formata da migranti di seconda o terza generazione, perché il
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fenomeno migratorio dei giovani italiani in cerca di lavoro all’estero è sempre più
consistente, perché da questa generazione nascerà il gruppo dirigente di domani. Negli
ultimi decenni la cultura dominante ha contrapposto gli interessi delle giovani
generazioni a quelli degli adulti e degli anziani, contribuendo a creare nei giovani un
senso di abbandono e di solitudine e contemporaneamente alzando l’età pensionabile
per poi scoprire, al tempo del covid, che gli anziani sono più fragili degli altri. Questa
cultura negativa e divisiva va combattuta proponendo una grande alleanza fra
generazioni unita dai fondamentali.
I temi di una vita sociale “sostenibile” e della lotta al riscaldamento globale sono propri
delle ultime generazioni, i millennials e la generazione Z. Gli effetti del riscaldamento
globale stanno già avvenendo con esito potenzialmente catastrofico per la comunità
umana. Non si tratta più – né mai lo è stato – di un tema per così dire aggiuntivo, ma
di una questione centrale. Per di più sono proprio queste le generazioni con maggiore
sensibilità ed attenzione al tema.
Per queste ragioni uno dei terreni di maggiore impegno dell’Anpi dev’essere quello
della formazione, in specie nella scuola e nelle università. L’accordo Anpi Miur può
essere un punto di partenza per una ricontrattazione che comprenda progetti complessi
e a lungo termine e si rivolga ai discenti e ai docenti in un più generale disegno di
riqualificazione civile della formazione.
Ancora sugli anziani: la crisi della socialità, la chiusura coatta dei luoghi di incontro
costringe intere fasce di anziani, già sotto scacco per il pericolo del virus,
all’isolamento forzoso, ad una solitudine tanto più triste quanto più avanzata è l’età.
L’unica risposta è, per quanto possibile, una prossimità verso questa fascia che è la più
debole e spesso la più sola.
Il dramma della pandemia mette a tema in modo nuovo e contestuale tre questioni: la
presenza pubblica nell’economia, dopo decenni di demonizzazioni del pubblico e di
privatizzazioni, a cominciare dalla sanità; la fruizione dei beni comuni, cioè delle
risorse materiali e immateriali condivise dalla comunità: posso fare di questi un solo
esempio per così dire di tipo nuovo? Il vaccino anti Covid; la sostenibilità ambientale.
Tutti argomenti che mettono in discussione il postulato della società di mercato; non è
in discussione – sia chiaro – l’importanza dell’economia di mercato; sono in
discussione i limiti di tale economia e una organizzazione sociale e civile modellata sul
mercato. Non si tratta soltanto – per esempio – della riduzione dei cittadini a
consumatori. Ne è investita persino la politica, che “non è più una sana discussione sui
progetti a lungo termine per lo sviluppo di tutti e del bene comune, bensì solo ricette
effimere di marketing che trovano nella distruzione dell’altro la risorsa più efficace”
(dall’enciclica Fratelli tutti, ottobre 2020).
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Da Hobbes a Rousseau, il tema della sicurezza ritorna come ragione dell’esistenza
stessa dello Stato. Noi dobbiamo forse tornare sull’argomento, contrastando le visioni
forcaiole di tanta parte della destra che sovente trasforma questioni di ordine sociale in
questioni di ordine pubblico. Va da sé che il senso di sicurezza dei cittadini va ben oltre
le questioni di ordine pubblico e investe l’insieme delle attività dello Stato (compreso
il tema della sicurezza sanitaria) e, nello specifico, attiene al corretto rapporto fra
prevenzione e repressione dei reati. Noi dobbiamo ragionare sul tema dell’ordine
democratico, cosa vuol dire, come si realizza, cosa comporta. Accenno solo a pochi
temi: periferie, migranti, incidenti sul lavoro. Aggiungo: sicurezza come tutela della
democrazia e delle sue istituzioni E concludo accennando allo spirito repubblicano che
dovrebbe ispirare l’istituzione delle forze dell’ordine, cosa che avviene spesso, ma non
sempre. Cito per esempio la recente promozione a vicequestore di due agenti di polizia
condannati per i fatti di Genova, e ancor di più la motivazione di tale promozione
causata, parole dei dirigenti, da “procedura amministrativa obbligata”.
La proposta
Ma arrivo ora a quello che vorrei fosse il cuore di questa relazione, la sua conclusione,
la base ideale dei nostri compiti e delle nostre prospettive. Mi pare che noi dobbiamo
avere una capacità di visione, cioè immaginare il futuro e praticare di conseguenza
delle scelte. A lunga scadenza, si propone il tema di una nuova statualità, cioè di un
nuovo rapporto fra Stato (nelle sue più ampie articolazioni), società, corpi intermedi,
che da un lato rilanci la repubblica alla luce delle lezioni della modernità, dall’altro
torni allo spirito e anche alla lettera della Costituzione tramite la sua applicazione
integrale e la piena attuazione dei diritti e dei doveri dei cittadini. Una nuova statualità
non può che nascere da una grande “riforma intellettuale e morale” che richiede
soggetti, energie e progetti ancora assenti, che vanno suscitati anche grazie
all’associazionismo e al volontariato laico e cattolico. Questa è la risposta plausibile
alla crisi della democrazia liberale, la cui unica soluzione è una democrazia sociale
comprensiva dei suoi caratteri liberali, ma che si espande dando finalmente
compimento alla prima e specialmente alla seconda parte dell’art. 3 Cost.
Questa riforma intellettuale e morale è un atto propriamente culturale, richiede cioè la
comunione del patrimonio dei saperi e delle esperienze e il ruolo attivo del complesso
mondo degli intellettuali contemporanei, e assieme richiede, come già detto, un
progetto di riqualificazione della formazione, cioè della scuola e dell’università. La
principale operazione culturale da fare è esattamente il contrario della cultura elitaria,
perché si tratta di una trasmissione culturale che penetri nel profondo della società, nel
suo ventre, dove allignano ignoranza e qualunquismo.
In questa grande prospettiva di cambiamento che dev’essere sostenuta in primo luogo
dall’Anpi in un più ampio movimento popolare, si incarna e si inquadra l’antifascismo
di oggi, che non può ridursi alla ovviamente necessaria negazione del fascismo, ma
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dev’essere conoscenza e coscienza della storia recente del Paese, e puntare sulla
centralità della persona umana e dell’essere sociale. Della persona, perché la sua
centralità è scomparsa nell’orizzonte reale del sistema di valori dominante, pur essendo
il fulcro della Costituzione. Dell’essere sociale, perché la persona esiste e si realizza
esclusivamente nelle relazioni con l’altro nello spazio e nel tempo. Le relazioni nello
spazio sono quelle che determiniamo ogni giorno e coincidono con la nostra vita e con
il lavoro. Le relazioni nel tempo sono quelle che determiniamo tramite la memoria,
cioè il rapporto con persone ed eventi del passato. La memoria è uno degli attributi
dell’umanità in quanto esseri sociali. La grande scatola sociale della memoria, cioè del
segno di ciò che è avvenuto, è la condizione per pensare a ciò che avverrà, cioè al
futuro. Anche da questo punto di vista è attuale la nostra idea di memoria attiva. La
persona e il suo essere sociale sono il soggetto della Costituzione, che definisce diritti
e doveri dell’umano “sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua
personalità” (art. 2 Cost.).
In questa misura l’antifascismo si deve riproporre come religione laica, repubblicana,
da un lato, e come punto di convergenza di diverse culture dall’altro, in sostanza come
cemento ideale e pratico di un nuovo blocco sociale che porti l’Italia fuori dalle secche
della crisi utilizzandola come occasione del cambiamento, ciò che non è avvenuto in
occasione della prima crisi, avviatasi in America nel 2007/8 e che rischia di non
avvenire anche in questa drammatica circostanza. In una visione del mondo che mette
al centro le persone e i comportamenti politici, sociali e culturali che ne conseguono,
l’antifascismo del tempo d’oggi si può legittimamente definire un nuovo umanesimo.
In questo scenario vanno contestualizzati i valori generali che abbiamo ereditato dalla
Resistenza, e cioè giustizia sociale, libertà, democrazia, solidarietà, pace.
Ciascuno di questi temi va riconiugato nella concretezza della situazione attuale,
uscendo dalle secche dell’enfasi e della retorica e ricercandone il senso nelle diverse
articolazioni della società, ma anche e per alcuni versi specialmente nelle diverse
articolazioni dello Stato.
Una speciale attenzione va posta nei rapporti col mondo cattolico oggi profondamente
diviso. In particolare nella lettura dell’enciclica Fratelli tutti si troveranno diversi punti
di larga condivisione, sui quali è possibile un percorso comune con l’associazionismo
che in forme dirette o indirette si riferisce al mondo cattolico. Più in generale va notato
che su punti qualificanti l’aspra competizione interna alla chiesa cattolica fra Bergoglio
e i suoi critici corrisponde alla competizione fra democratici e nazionalpopulisti nel
mondo, e che l’insieme del pensiero del pontefice ruota attorno al valore della persona
umana, valore da noi laicamente condiviso.
Su tutti questi temi dobbiamo immaginare un programma di aggiornamento dei nostri
gruppi dirigenti con particolare attenzione ai temi del fascismo, del razzismo e delle
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tensioni sociali sullo sfondo della Costituzione. Dovremo studiare anche la ricaduta di
questi temi sui programmi di formazione.
Ma va da sé che, se si condividono le cose che ho detto, dobbiamo impegnarci nella
lenta e faticosa costruzione di un vastissimo fronte popolare che deve passare attraverso
la mobilitazione del mondo dell’associazionismo e del volontariato e deve trovare
alleanze e sponde nei partiti democratici e nelle istituzioni. La chiave unitaria è l’unica
chiave possibile per combattere il degrado e per avanzare una risposta positiva che
comprenda il contrasto a fascismi, razzismi, nazionalismi e disegni un passo avanti di
civiltà.
Quello che propongo in sostanza è che l’Anpi sia promotrice di una grande alleanza
democratica e antifascista per la persona, il lavoro e la socialità. Un’alleanza che
unisca tendenzialmente ogni energia disponibile dell’associazionismo, del
volontariato, del cosiddetto Terzo settore, del movimento sindacale, un’alleanza che
guardi al dramma presente attraverso i valori della solidarietà e della prossimità, – due
parole chiave – ma guardi al futuro, affinché l’Italia del dopo Covid non sia la
restaurazione dei modelli economici e valoriali del recente passato, ma si avvii sulla
strada del cambiamento. Un solo esempio: il recente passato ha visto il trionfo delle
diseguaglianze. O ci sarà una svolta vera, oppure il futuro le riproporrà in forma ancora
più grave. E cosa può essere questa alleanza se non un’alleanza per la Costituzione?
So bene che è prospettiva difficile per la realtà di un Paese che manifesta oramai una
fortissima presenza dell’estrema destra a fronte di una debolezza politica delle forze
democratiche, ma proprio per questo oggi non basta più rispondere colpo su colpo,
giocare di rimessa; c’è bisogno di avviare un processo di ricostruzione pur navigando
a vista, partendo dall’interno della società, ricomponendo ciò che è disperso, unendo
ciò che è diviso, restituendo socialità dove c’è solitudine.
Riconvocheremo penso a dicembre il famoso tavolo dei 23, ripensandolo
profondamente, allargandolo in modo significativo e operando in quantità e in qualità.
In quantità dovremo estendere gli inviti ad altre grandi associazioni laiche e cattoliche
interessate a questo progetto, in qualità perché dovremo proporre una unità antifascista
che comprenda il contrasto ai fascismi e ai razzismi ma vada oltre, e proponga idee,
suggerimenti, suggestioni, perché oggi un grande cambiamento antifascista è un grande
cambiamento generale sulla via della civiltà e del progresso sociale. Noi dobbiamo
contribuire a creare una nuova prospettiva. L’Anpi può essere il sale, il detonatore,
l’innesco di una proposta generale incardinata sull’attuazione della Costituzione e
declinata nel tempo che viviamo. Se si vede bene, non è una novità assoluta. Come ci
ha ricordato Smuraglia in una lunga mail dell’aprile di quest’anno, ci sono momenti
della vita nazionale in cui l’Anpi di sempre – scriveva – dev’essere qualcosa di più
incisivo e aggiornato. E il presidente emerito faceva due calzanti esempi: contro la
legge truffa nel 1953, contro Tambroni nel 1960. Siamo in uno di quei momenti di
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svolta con una differenza: allora intervenimmo giustamente contro. Oggi dobbiamo
intervenire per. Per la repubblica, per il lavoro, per la rinascita, per la riforma
intellettuale e morale. Su questi temi ho sondato il terreno di una disponibilità per ora
con Maurizio Landini, Anna Maria Furlan, Don Ciotti, Francesca Chiavacci, Beppe
Giulietti, Mattia Santori e Jasmine Cristallo, del movimento delle sardine e ho trovato
un consenso davvero molto forte e motivato. Perché? Perché vedono nell’Anpi quei
fondamentali di cui parlavo all’inizio.
Quando tutto è in crisi si guarda a chi ha i fondamentali. E dobbiamo uscire dal
Comitato nazionale con un’idea che esprima preoccupazione e fiducia, che inneschi un
motore per uscire dalla crisi, che proponga, come accennavo, una capacità di visione.
Ho finito. La nostra è una lotta iniziata con la Resistenza, segnata dalla Liberazione,
ma poi continuata in modo sotterraneo o manifesto in mille forme. Nei giorni scorsi lo
storico Claudio Dellavalle mi ha inviato una bellissima mail a proposito della
scomparsa di Carla. Ha fra l’altro scritto: “Penso che Carla ci abbia offerto un
linguaggio e un modo di porsi che dovremmo cercare di salvaguardare perché è come
guardare con occhi nuovi un impegno che viene da lontano”. Mi ha ricordato una nota
frase di Marcel Proust: “Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre,
ma nell’avere nuovi occhi”. Ecco, essere partigiani oggi. Il nostro impegno richiede
questo cambio di passo che ho citato all’inizio: dobbiamo avviare una nuova fase della
lotta democratica e antifascista.
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