Donatella Stasio: la cultura costituzionale che ci manca per resistere alla regressione democratica
Un film già visto in Ungheria e Polonia si ripete ora in Israele limitando l’alta Corte. Bisogna ripartire dalla formazione dei cittadini per evitare che la giustizia diventi una farsa
DONATELLA STASIO
08 Febbraio 2023
Quando cominceremo a prendere sul serio la Costituzione? E a fare i conti, seriamente, con quella “regressione democratica” che giorno dopo giorno, ormai da qualche decennio, fa scivolare vecchie e nuove democrazie verso forme di autoritarismo? Chiederselo è doveroso di fronte al crescente, persino ostentato, analfabetismo istituzionale e costituzionale, di cui però sembriamo accorgerci solo oggi. Non gli abbiamo dato peso, occupati come siamo a rincorrere il consenso, che siano like, follower, sondaggi, share, mercato… Sordi, ciechi e afasici, capaci al più di interlocuzioni di poche battute, spazi compresi, altrimenti non si capisce, non c’è tempo, troppo difficile, la pubblicità… Ecco allora esplodere il caso-Cospito, con il rischio di rimanere schiacciati dall’urlo fazioso dei Fratelli d’Italia, e di precipitare nella confusione, espropriati come siamo stati di ogni punto di riferimento, quelli sui quali le madri e i padri costituenti avevano costruito un mondo nuovo, una convivenza civile, un clima. Proprio così, un clima, senza il quale non riusciamo a trattarci da uguali, ci ricorda incessantemente Giuliano Amato; un luogo dove i diritti fondamentali si rispettano, perché solo così esistiamo come democrazia costituzionale. Questa è la nostra identità – purtroppo smarrita – di cui dobbiamo riappropriarci senza temere di essere additati tra “i nemici”, i “collusi” o, per dirla con Massimo Giannini, di essere «manganellati», com’è capitato ad Armando Spataro e a Lucia Annunziata, per aver espresso opinioni critiche sul governo, in diretta Tv. E allora la domanda è: quanto coraggio ci vuole per stare dalla parte della Costituzione e per non gettare la spugna, sia quel che sia?
Proprio in queste settimane assistiamo al tentativo del nuovo governo israeliano di Bibi Netanyahu di smantellare la Corte suprema. Un film già visto in Ungheria e Polonia. Anche in Israele si parla di una riforma della giustizia. Netanyahu vuole assoggettare la Corte al controllo politico attraverso una manovra in tre punti: abbassare l’età della pensione dei giudici per mandar via alcune figure scomode; stabilire che per dichiarare incostituzionale una legge occorre una maggioranza qualificata dei giudici della Corte; prevedere che il Parlamento possa sempre riapprovare una legge dichiarata incostituzionale dalla Corte suprema. Di fronte a questo progetto, decine di migliaia di manifestanti sono scesi in piazza a Tel Aviv ed è in atto una enorme mobilitazione di giuristi per spiegare alla gente comune che questa riforma stravolgerà le garanzie dei cittadini.
A tutela di quelle garanzie ci sono appunto le Corti costituzionali e non vorremmo che anche in Italia la nostra cambiasse fisionomia. Preoccupazione giustificata dalla strategia riformatrice della maggioranza, che viaggia sempre più sui binari delle modifiche alla Costituzione: dalla giustizia all’autonomia differenziata, dalla forma di governo all’esecuzione della pena, sembra che alle destre stiano stretti gli abiti che la Carta ci chiede di indossare, soprattutto in tempi difficili e in particolare alle classi dirigenti. Sarà mica una questione di cultura?
I Fratelli d’Italia, anche con il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro – quello che ha passato al collega Giovanni Donzelli le carte del Dap sulle battute tra Cospito e i boss mafiosi, definite dal guardasigilli di «limitata divulgazione» per non vanificare, riteniamo, lo scopo del 41 bis eppure divulgate per motivi di lotta politica – propongono di riformare l’articolo 27 della Costituzione perché la funzione rieducativa della pena ostacolerebbe la sicurezza collettiva; sarebbe addirittura un «valore tiranno» rispetto alla prevenzione, ha sentenziato Delmastro, che fra l’altro fu il primo, all’epoca della “mattanza” dei detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, a solidarizzare con i poliziotti (il processo è in corso, e vede 105 imputati tra medici, funzionari del Dap, e agenti di polizia).
Un manifesto ideologico della destra, garantista solo nel processo, guai dopo la condanna, va ripetendo nello scontro politico sull’ergastolo ostativo e sul 41 bis. Eppure, non risultano proposte di riforma di quello che, erroneamente ma non casualmente, viene chiamato il “carcere duro”, ovvero il regime eccezionale di detenzione introdotto dopo la strage di Capaci per impedire ai boss mafiosi di impartire ordini assassini dal carcere. Strumento eccezionale ma necessario, che però non giustifica ulteriori dilatazioni della “durezza” allo scopo di indurre a collaborare con la giustizia. Uno scopo, ahimè, sotterraneo se è vero quanto ha scritto su questo giornale uno dei “padri” del 41 bis, l’ex ministro Enzo Scotti: «Basta che ci dica quelle cose perché si aprano, se non le porte del carcere, almeno quelle che li separano dal mondo».
Voglio ricordare le parole scritte nel 2002 dall’allora presidente della Corte suprema di Israele Aharon Barak sulla famosa sentenza riguardante i limiti dei poteri della polizia negli interrogatori di presunti attentatori, ritenuti a conoscenza dei luoghi in cui erano state piazzate bombe pronte ad esplodere (ticking bombs). La polizia avrebbe potuto stressare l’interrogatorio fino a trasformarlo in una forma di tortura per salvare vite umane? Ovviamente, fortissima era la pressione dell’opinione pubblica per la sicurezza collettiva, anche se a scapito del diritto fondamentale all’incolumità personale dei presunti terroristi. «Mi considero un giudice sensibile a quello che è il suo ruolo in una democrazia – scrisse Barak -. Prendo sul serio i compiti che mi sono imposti: gettare un ponte tra il diritto e la vita e proteggere la Costituzione e la democrazia. A dispetto delle critiche spesso ricevute, scese talora al piano degli attacchi personali e delle minacce di violenza da parte di estremisti, ho continuato a perseverare su questa strada per molti anni. Penso che, così facendo, sto servendo adeguatamente il mio ordinamento giuridico. Come giudici della Corte più elevata dobbiamo continuare nel nostro compito in accordo con la nostra coscienza. Noi, in quanto giudici, abbiamo una stella polare che ci guida, i valori e i principi fondamentali della democrazia costituzionale. Una grande responsabilità è posta sulle nostre spalle. Anche in tempi difficili dobbiamo rimanere fedeli a noi stessi. Siamo parti della società israeliana. I suoi problemi ci sono noti e viviamo la sua stessa storia. Siamo consapevoli dell’aspra realtà del terrorismo nella quale a volte siamo immersi. Nostra preoccupazione è che questa decisione pregiudichi la possibilità di trattare adeguatamente i terroristi e il terrorismo. Tuttavia, noi siamo pur sempre giudici. I nostri concittadini ci chiedono di agire secondo il diritto. Questa è la linea che ci siamo dati noi stessi. Quando sediamo in giudizio siamo sotto giudizio».
Ma che cosa accade se i concittadini o una maggioranza politica chiede di agire non secondo, ma contro il diritto? Che cosa succede se la Costituzione viene percepita non come garanzia ma come ostacolo? E se l’analfabetismo costituzionale fa ritenere legittima una soluzione contraria al diritto e alla Costituzione? Infine, che cosa accade se la politica aizza l’opinione pubblica contro i giudici che agiscono in modo diverso dai loro umori? In questi casi c’è solo una cosa che può salvare le Corti, i diritti e le democrazie costituzionali: la cultura. Solo la cultura costituzionale, con i suoi bilanciamenti, può fare da sostegno, da scudo e da argine, «il bisogno di vivere non nel regno della forza ma nel regno del diritto che regola la forza», ha scritto Gustavo Zagrebelsky in Principi e voti nel 2005, chiedendosi se però esista un «partito della Costituzione» al quale rivolgersi con fiducia e sicurezza nei momenti difficili.
Non esiste, purtroppo.
Ecco perché bisogna ripartire dall’alfabetizzazione costituzionale, non solo per evitare – sulla scia di Ungheria, Polonia e Israele – che la nostra giustizia costituzionale diventi una farsa, una copertura della volontà del più forte; ma anche per respingere al mittente – chiunque esso sia – l’accusa di collusione con il “nemico” ogni volta che si difende coerentemente la cultura in cui affondano le radici dei nostri diritti e doveri, del nostro stare insieme. Quella cultura ha bisogno di essere irrorata, non intimidita e mortificata. Ha bisogno di voce e di voci.
Israele, colpo di Stato identitario
NETTO SLITTAMENTO VERSO L’ESTREMA DESTRA
Benjamin Netanyahu, dando la priorità alle riforme politiche richieste dagli alleati nazionalisti e ultraortodossi, potrebbe trasformare profondamente la democrazia israeliana. I poteri della Corte suprema ma anche quelli dei giudici sono nel mirino di una coalizione che progetta, inoltre, di estendere l’influenza
religiosa sull’insegnamento pubblico e di non fare alcuna concessione ai palestinesi.
di Charles Enderlin pubblicato su “Le Monde Diplomatique” – Il Manifesto di febbraio 2023
Il signor Benjamin Netanyahu ce l’ha fatta. Tornato al potere il 29 dicembre (dopo aver ricoperto la carica di primo ministro dal marzo 2009 al giugno 2021), sostenuto da una maggioranza di sessantaquattro deputati – su centoventi – nazionalisti, ultraortodossi e messianici, può ormai realizzare il suo grande progetto: instaurare in Israele un nuovo regime fondato su un nazionalismo ebraico autoritario, religioso, in rottura con la concezione della democrazia che avevano i padri fondatori del sionismo, Theodor Herzl, Vladimir Zeev Jabotinsky e David Ben Gurion. La prima tappa è stata l’adozione da parte della Knesset, nel luglio 2018, della legge Israele-Stato nazione del popolo ebraico, testo molto controverso perché ritenuto discriminatorio nei confronti delle minoranze arabe e druse ma ora l’obiettivo è imbrigliare lo Stato di diritto, riformare l’istruzione nazionale, assoggettare i quadri dirigenti del sistema securitario, schiacciare l’opposizione di sinistra, imporre il nazionalismo ebraico come identità nazionale, dare nuovo impulso all’annessione della Cisgiordania e proseguire la neutralizzazione dell’Autorità palestinese. La carica contro i giudici Netanyahu ha assegnato il compito di trasformare il sistema giudiziario a Yariv Levin, giurista e deputato che, dalla sua elezione nella lista del Likud, nel 2009, guida la carica contro i giudici. Dal 4 gennaio, all’indomani della nomina a ministro della giustizia, ha presentato il proprio progetto di «revisione radicale» incentrato sul principio secondo cui il «popolo» riconosce alla maggioranza eletta la legittimità di governare da sola, senza l’interferenza dei magistrati che non sono nominati dalle urne. Una clausola di «aggiramento» permetterà a sessantuno deputati di annullare una sentenza della Corte suprema sull’incostituzionalità di una legge.
«Un testo votato dalla Knesset non potrà più essere abrogato da un giudice», insiste Levin. Inoltre, il collettivo di nomina dei membri della Corte suprema dovrebbe passare sotto il controllo della maggioranza al potere. Sono previste anche altre misure, come la riscrittura di alcuni articoli del codice penale, nell’intento di ridurre il numero di rinvii a giudizio per corruzione all’interno della classe politica. Teoricamente, Netanyahu può trovarsi a nominare i giudici che esamineranno il suo ricorso in appello
qualora si chiudesse con una condanna il processo per frode, abuso di potere e corruzione attualmente in corsocontro di lui.
Non si sbaglia Esther Hayut, presidente della Corte suprema. La più alta magistrata del paese, intervenendo
pubblicamente per la prima volta, ha fermamente condannato il progetto di Levin: «Siamo di fronte a un’offensiva contro il sistema giudiziario come se si trattasse di un nemico da attaccare e dominare.
Questa riforma assesta un colpo mortale alla democrazia». Il ministro della giustizia le ha risposto
accusandola di appartenere «al partito di quanti non si sono presentati alle elezioni, che si colloca al di sopra della Knesset e delle decisioni del popolo.
La sua retorica è quella delle bandiere nere sventolate durante le manifestazioni. Il suo intervento è destinato a infiammare le piazze di Israele».
Aharon Barak, 86 anni, presidente della Corte suprema dal 1995 al 2006, intervenendo nei telegiornali dei maggiori canali israeliani, lancia un monito solenne: «Questa riforma instaura la tirannia della maggioranza e rappresenta un pericolo per la democrazia, svuotandola di ogni suo contenuto. Se venisse applicata, resterebbe una sola autorità nel paese, quella del primo ministro!». Parafrasando il celebre aforisma del pastore Martin Niemöller sulla vigliaccheria degli intellettuali all’epoca dell’avvento del nazismo in Germania, Barak consiglia agli israeliani di non trovarsi nella situazione di colui che ha risposto «Non
mi riguarda, non sono comunista!» a chi gli diceva: «uccidono i comunisti!». Una giornalista della rete tele-visiva Canale 12 gli ha chiesto: «Cosa suggerisce al pubblico?» Risposta: «Se non si giunge a un accordo, bi-
sognerà dichiarare battaglia, nel rispetto della legge naturalmente; ma se dovremo manifestare di nuovo a
Balfour… ebbene, che manifestazioni siano a Balfour! Non abbiamo un altro paese». La residenza ufficiale del primo ministro si trova in via Balfour, a Gerusalemme.
L’indebolimento della Corte suprema, unica istituzione cui possono rivolgersi i palestinesi per difendere
i propri diritti, permetterà di far saltare gli ultimi freni giudiziari allo sviluppo della colonizzazione. Ven-
tiquattr’ore prima dell’investitura, Netanyahu ha pubblicato in un tweet le prime righe dell’accordo di coali-
zione: «Il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e inalienabile sulla terra di Israele. Il mio governo promuoverà e svilupperà insediamenti ovunque, anche in Giudea e Samaria». Nell’aprile 2020, all’epoca della costituzione del gabinetto, nello stesso testo non compariva il termine «esclusivo». È un chiaro messaggio a tutti coloro che, sulla scena internazionale, da Joseph Biden a Emmanuel Macron, perseve-
rano nei rimandi ai «valori» comuni con Israele, ribadendo la necessità di una soluzione per due Stati. Per celebrare la svolta, Netanyahu ha offerto le chiavi della Cisgiordania e della sicurezza interna alla lista Sionismo religioso (HaTzionut HaDatit), alleanza di cui è referente e che raggruppa tre partiti di coloni radicali. Bezalel Smotrich, della colonia di Kedumim vicino a Nablus, ottiene l’importantissimo
incarico ministeriale alle finanze, ma anche un posto da ministro con delega alla difesa, con la responsabilità di nominare i comandanti di due unità militari: l’Amministrazione civile della Cisgiordania e il Coordinamento delle attività governative nei territori (Cogat). Queste due strutture assicurano il collegamento con l’Autorità palestinese, controllano tutto quello che entra ed esce dai territori palestinesi e assicurano la gestione delle popolazioni civili. I generali sono fermamente contrari all’introduzione di elementi politici di estrema destra nella catena di comando. Nei fatti, secondo il professore di diritto Mordechai Kremnitzer, i palestinesi passano da un’occupazione militare a un nuovo regime predisposto
dai coloni, che porterà inevitabilmente alla condanna di Israele da parte della Corte internazionale di giustizia (Cig) dell’Aja.
Smotrich si pone l’obiettivo di rafforzare il divieto di nuove costruzioni palestinesi nell’area C – il 60%
della Cisgiordania interamente sotto il controllo israeliano –, e di favorire la legalizzazione di centinaia di colonie costruite senza l’autorizzazione governativa, per le quali prevede un collegamento alle infrastrutture nazionali, all’elettricità, all’acqua e alle comunicazioni. Il nuovo ministro considera l’Autorità palestinese, presieduta da Mahmud Abbas, un’«entità terroristica» cui non è disposto a fornire
il minimo aiuto.
Dal canto suo, Itamar Ben-Gvir, residente nella colonia Kyriat Arba, a Hebron, deputato, leader del partito
razzista che si ispira alle tesi estremiste del rabbino Meir Kahane (5), Potere ebraico (Otzma Yehudit), ha realizzato i suoi sogni più arditi: è stato nominato ministro della sicurezza nazionale, a capo della polizia nazionale, che giusto un anno prima lo riteneva un pericoloso istigatore razzista (l’esercito, invece, aveva rifiutato di accoglierlo perché lo reputava troppo estremista). In autunno, è stato ripreso in un quartiere di Gerusalemme est, con la pistola in mano, mentre minacciava dei palestinesi. Su consiglio del suo «coach» – Netanyahu, che ha incontrato regolarmente durante la campagna elettorale – Ben-Gvir adotta un atteggiamento più cauto, annunciando una nuova moderazione, dimostrata nel divieto per i militanti di gridare «Morte agli arabi», cui preferire «Morte ai terroristi». Vicino all’Istituto del Tempio, un ente che ac-
coglie un museo e un’organizzazione volta alla costruzione del terzo tempio di Gerusalemme, prima della nomina istituzionale si batteva attivamente per la rimozione del divieto per gli ebrei di pregare sulla spianata delle moschee, terzo luogo santo dell’islam. Un luogo cui gli ebrei fanno corrispondere il monte del Tempio, primo luogo sacro del giudaismo. Il nuovo ministro della sicurezza nazionale resisterà alla tentazione di infrangere lo status quo, di cui dovrebbe garantire il rispetto?
I rabbini alla guida dell’Istituto del Tempio sono stati i primi a felicitarsi con lui la sera stessa della vittoria elettorale.
Definizione rigida di ebraicità Ben-Gvir, nell’ambito delle sue funzioni, potrà delineare la strategia globale delle forze dell’ordine, senza tuttavia intervenire nelle decisioni operative. Dovrebbe avere maggiori libertà con il corpo delle ottomila guardie di frontiera, avendone ricevuto la responsabilità e potendo così decidere di schierarle nel settore di Gerusalemme e nel Negev a fronteggiare la popolazione beduina. Alcune com-
pagnie di questa unità sono già state spostate nello spiegamento dell’esercito in Cisgiordania.
Per il primo ministro, la volontà di imporre il nazionalismo ebraico passa attraverso l’accompagnamento della gioventù. Per questo, ha deciso di attribuire la competenza dell’insegnamento pubblico religioso
(365.000 studenti ripartiti in 4.300 istituti), finora apolitico, a Bezalel Smotrich, dirigente del partito sionista religioso regolarmente sotto i riflettori per le dichiarazioni ostili alla sinistra, ai palestinesi e alle minoranze sessuali. Diventa, invece, viceministro Avi Maoz del partito di estrema destra Noam. Omofobo, misogino e contrario al servizio militare femminile, assume la guida di una nuova agenzia di promozione dell’identità nazionale ebraica in stretto rapporto con il primo ministro. Dal canto suo, Aryeh Deri, presidente del partito sefardita Shas, e storico alleato di Netanyahu, ottiene due dei sei ministeri conferiti alla sua formazione: interno e salute. Tuttavia, è un pregiudicato, essendo stato condannato a tre anni di prigione, nel 2000, per corruzione. Inoltre, ha subito una nuova condanna a un anno, con sospensione condizionale della pena, per frode fiscale. La Corte suprema ha così stabilito, il 18 gennaio, che non potesse assumere incarichi di governo, costringendo Netanyahu a destituirlo. La coalizione al potere conta quindi di accelerare la revisione del sistema giudiziario per impedire che accadano contrattempi simili in futuro. Infine, Orit, della colonia Avraham Avinu a Hebron, è stata incaricata della questione identitaria ebraica. Dopo la nomina a ministra delle missioni nazionali, ha ottenuto il dipartimento della cultura ebraica del ministero dell’istruzione e la direzione di scuole e accademie premilitari. Gli 823.000 studenti dell’insegnamento secolare, che dipendono sempre dal ministero dell’istruzione, in parte smantellato, avranno diritto a
corsi potenziati di Talmud, sulla base di un testo di legge promosso dagli ultra-ortodossi, che non sono stati dimenticati, al contrario.
L’accordo concluso con il primo ministro prevede il voto di testi che riconducono la definizione di ebraicità alla stretta applicazione della legge religiosa. Si prevede un emendamento alla legge del ritorno per proibire l’arrivo di immigrati considerati non sufficientemente ebrei per il gran rabbinato di Israele. Non sarebbero più riconosciute le conversioni eseguite dai rabbini liberali, riformati o conservatori, in Israele o all’estero. Queste concessioni ai religiosi vanno di pari passo con le imponenti misure finanziarie.
El Hama’ayan, la rete di scuole private di Shas, ottiene un finanziamento pubblico per studente superiore del 20% rispetto a quello concesso all’insegnamento secolare. Gli ashkenaziti dell’Ebraismo della Torah unito (Yahadut Hatorah) ottengono due portafogli, tra cui quello per l’edilizia abitativa. Secondo Avigdor Lieberman, il precedente ministro delle finanze, le esigenze dei partiti ultraortodossi su finanziamenti vari raggiungerebbero i 5 miliardi di euro all’anno, generando ulteriore disparità tra secolari e ultraortodossi. Questi ultimi sono dispensati dal servizio militare e contribuiscono solo marginalmente all’economia del paese. Secondo l’Ufficio centrale israeliano di statistica, i contribuenti secolari pagano sei volte più di imposte dirette rispetto agli ultraortodossi. Le borse assegnate agli studenti delle scuole talmudiche sono appena state raddoppiate e superano lo stanziamento economico per i giovani militari del contingente. Netanyahu riuscirà a modificare le istituzioni del paese? Convinto sia giunta l’ora della trasformazione, non ha alcuna intenzione di cedere di fronte ai sostenitori dello Stato di diritto che sono riusciti a raccogliere oltre centotrentamila israeliani nella giornata di manifestazione a Tel Aviv e a Gerusalemme il 21 gennaio. L’indomani, aprendo il Consiglio dei ministri, il primo ministro ha ricordato che, ai suoi occhi, contava solo la maggioranza riconosciutagli dagli elettori al voto del 1° novembre.